LICENZIAMENTO A SEGUITO DEL RIFIUTO DI TRASFERIMENTO: REQUISITI DI LEGITTIMITA’
La Cassazione nell’ordinanza 4404/2022 del 10 febbraio, chiarisce ulteriormente sulla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al dipendente e dovuto al suo rifiuto ad assoggettarsi al trasferimento in altra sede. Tale rifiuto giustifica il licenziamento se viola il principio della buona fede e della correttezza da parte del lavoratore, anche nell’ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 del codice civile.
Il caso ha una storia giudiziaria estremamente complessa e generata dall’impugnazione del licenziamento di un lavoratore che dopo il trasferimento imposto per chiusura della unità produttiva in cui prestava servizio, aveva rifiutato di raggiungere la nuova sede di lavoro.
Il Tribunale di Potenza, nel primo grado di giudizio, aveva respinto il ricorso del lavoratore, mentre la Corte di Appello di Potenza, con sentenza 566 del 2011, aveva dichiarato illegittimo il trasferimento e il conseguente licenziamento, intimando al datore di lavoro di reintegrare il dipendente sulla scorta della asserita violazione del principio di correttezza e buona fede in relazione delle conseguenze scaturite dalla soppressione della sede di lavoro, da cui sarebbe derivata la liceità del respinto opposto dal lavoratore al disposto trasferimento.
Conseguentemente, la società ricorreva in Cassazione, dalla quale con sentenza n. 28791 del 2017, si accoglieva i motivi del ricorso principale della società e rinviava alla Corte di Appello di Potenza in diversa composizione.
La pronuncia del Supremo Collegio osservava, infatti, in primo luogo, che la Corte di merito doveva semplicemente accertare che vi fosse corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa e non poteva straripare fino ad entrare nel merito della scelta operata dall’imprenditore.
Essa, infatti, nel dichiarare illegittimo il trasferimento e il licenziamento “era ricorsa ad argomenti che andavano a sindacare le scelte organizzative dell’imprenditore“. D’altra parte la medesima non aveva adeguatamente considerato che il trasferimento del lavoratore presso un’altra sede, lo abilita a chiederne l’accertamento di legittimità, ma non gli consente di rifiutarsi di eseguire la prestazione lavorativa.
La sentenza n. 207 del 14 febbraio 2020, resa dalla Corte di Appello di Potenza in sede di rinvio, rigettava, pertanto, l’appello interposto dal lavoratore, rimarcando come non fosse in discussione “la sussistenza della riorganizzazione aziendale posta a base del mutamento della sede lavorativa imposta al lavoratore” essendovi “riscontro positivo circa la veridicità della misura organizzativa fondamento esistente alla base del trasferimento del lavoratore”.
E’stato altresì evidenziato, nel tessuto motivazionale, che, anche in caso di trasferimento che viola l’art. 2103 c.c., il lavoratore non è legittimato automaticamente a rifiutarsi di eseguire la prestazione lavorativa, potendo egli, ai sensi dell’art. 1460 co. 2 c.c., opporre tale rifiuto solo allorquando lo stesso, valutato il caso concreto, non appaia contrario alla buona fede e nel contempo esprima la reale volontà e disponibilità a svolgere il servizio presso la sede originaria, circostanza, questa non rinvenibile nella fattispecie.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso del lavoratore avverso tale sentenza, con la citata ordinanza di conferma della stessa, ha preso in esame entrambe le motivazioni in essa esposte e ritenute idonee, isolatamente considerate, a sorreggerla.
Innanzitutto, il Supremo Collegio ha osservato che, dall’accertata legittimità del trasferimento disposto dal datore di lavoro, ne derivi la natura indebita del rifiuto ad esso opposto dal lavoratore e, dunque, la giusta causa del recesso intimato.
Ad identica conclusione, d’altra parte, si sarebbe giunti analizzando il caso alla luce dell’art. 1460 c.c., attesa l’accertata contrarietà, nel caso concreto, a correttezza e buona fede del rifiuto del lavoratore al trasferimento.
A riguardo, in particolare, gli ermellini hanno osservato che: “In caso di trasferimento adottato in violazione dell’articolo 2103 del codice civile, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’articolo 1460 del codice civile, comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede. La relativa verifica dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell’ambito delle quali si potrà tenere conto, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore organizzazione datoriale e più in generale realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell’ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli articoli 35,36 e 41 della Costituzione”.